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Fiscal cliff: problemi rimandati, GOP (ancora) in crisi d’identità

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- L’accordo sul “fiscal cliff”, dopo momenti di incertezza, alla fine è stato raggiunto.

Martedì scorso la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha dato il via libera all’accordo raggiunto al Senato.
Il compromesso prevederà un aumento al 39,6% dal 35% dell’aliquota per le persone che guadagnano più di 400.000 dollari l’anno e le famiglie i cui guadagni superano i 450.000 dollari l’anno.

Verranno confermati gli sgravi fiscali per le famiglie della classe media e si renderanno permanenti le aliquote della minimum tax, mentre l’aliquota per la tassa di successione verrà innalzata dal 35% al 40% sulle proprietà che superano il valore di 10 milioni di dollari.
Nuove tasse (20%) anche sui dividendi e capital gains sempre per le persone fisiche che superano i 400.000 dollari all’anno e per le famiglie al di sopra dei 450.000 dollari annui.
Sono stati confermati anche i sussidi per i disoccupati fino alla fine del 2013. Saranno inoltre presenti sgravi di imposta per chi ha figli a carico, compresi quelli al college, e per le imprese che faranno innovazione.

I veri problemi, cioè il tetto del debito ormai arrivato a 16.393 miliardi di dollari (ormai troppo vicino alla soglia legale dei 16.400 miliardi) e i tagli alla spesa pubblica, sono invece stati rimandati alla fine di febbraio.

Di primo acchito, e dopo la buona risposta dei mercati, l’accordo sembra aver risolto il problema, ma così non è. La vittoria per Obama infatti è solo politica. L’accordo ha lasciato sostanzialmente invariati tutti i tagli fiscali adottati da Bush nei suoi anni di mandato e, grazie a negoziati molto mal gestiti, il GOP è riuscito a creare lotte intestine al partito bruciando molto di quello che aveva promesso, violando l’impegno a non aumentare le tasse e lasciando irrisolti il problemi del debito ed i tagli alla spesa.

Tutto questo non farà altro che creare incertezza sul futuro, che andrà a gravare sulla economia statunitense già oberata dalla crisi economica e da un mercato del lavoro che ancora sta lasciando senza occupazione il 7,8% di americani.

Dietro l’approvazione con 257 voti contro 167 del “fiscal cliff” si cela la netta spaccatura dei repubblicani fra gli 85 favorevoli e i 151 contrari. Boehner, rinominato speaker alla House poche ore fa e non senza difficoltà, si è schierato dalla parte del “sì”, mentre il suo vice, Eric Cantor, ha optato per il “no”. Stessa cosa dicasi per Paul Ryan, candidato alla vice presidenza fianco a Mitt Romney, che ha scelto per il “sì”, mentre Marco Rubio, senatore della Florida, ha respinto il compromesso al Senato.

La guerra ideologica all’interno del partito repubblicano è chiara: da una parte l’intransigenza dei simpatizzanti del Tea Party, troppo ottusi e a testa bassa contro le tasse, dall’altra l’ala più pragmatica e un po’ delusa dei McCain e dei Graham, più incentrati a guardare in faccia la realtà piuttosto che a fare i “duri e puri”. Quello che sta accadendo è che molta della base del GOP sta adottando il “muro contro muro” come formula per sbancare le elezioni mid term del 2014, come già accaduto nel 2010. Dall’altra parte del fiume c’è invece il leader Boehner che ha dovuto correre ai ripari in extremis sulla linea da adottare per il “fiscal cliff”, per paura che l’opinione pubblica additasse ai repubblicani il mancato compromesso.

Il Vice Joe Biden, creando l’accordo con il repubblicano McConnell, ha di fatto nascosto un piano democratico basato sul nulla, lasciando invariati i tagli alle tasse di Bush e prorogando i problemi a data da destinarsi. I repubblicani, ancora una volta, sono riusciti a farsi male con le proprie mani quando invece sarebbe bastato affrontare la questione con meno fretta e con un minimo di strategia.

Cosa sta realmente succedendo all’interno del Grand Old Party forse lo riassume bene Beth Reinhard che, in un articolo apparso sul Nation Journal, prende ad esempio i due maggiori leader delle opposte fazioni: Paul Ryan e Marco Rubio.
Il primo, Ryan, ha accettato gli aumenti delle tasse sui più ricchi per scongiurare un potenziale disastro economico, scommettendo che il percorso verso la vittoria debba passare attraverso il compromesso col governo.  Ryan, sondaggi alla mano, si è piegato al “mood” di un’opinione pubblica pronta a mettere alla berlina il GOP per il mancato accordo. Il potente presidente della commissione al bilancio e fedele al presidente della Camera John Boehner è in gran parte – secondo Reinhard – uno degli attori più influenti di questa ala pragmatica.

Il secondo è Marco Rubio, diventato senatore della Florida battendo Charlie Crist, quest’ultimo da poco passato ai Democratici.
Rubio, ottimo oratore e giovane di origine ispanica, è uno degli astri nascenti delle nuove leve repubblicane e, non a caso, era stato considerato da molti analisti un possibile vice president in ticket con Mitt Romney all’election day per la Casa Bianca. Il Senatore della Florida, nonostante le sue posizioni sulla immigrazione e sugli aiuti di Stato, è simpatizzante del Tea Party e più interessato ai problemi del suo Stato piuttosto che ai problemi nazionali.

Ed è forse proprio questo il punto centrale della questione: se da una parte l’ala pragmatica tende a pensare che la vittoria possa passare attraverso la concertazione con Capitol Hill, dall’altra invece si vuole favorire una gestione “locale” della politica, forse un po’ ottusa, ascoltando la “pancia” come presupposto per la vittoria finale.
La tensione con l’ala estrema del Tea Party è arrivata al culmine e i repubblicani dovranno riuscire a porvi rimedio in fretta. In gioco ci potrebbero essere anni di cocenti sconfitte in preda ad una crisi d’identità.


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